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THE ELEPHANT MAN
(THE ELEPHANT MAN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 dicembre 1981
 
di David Lynch, con John Hurt, Anthony Hopkins, John Gielgud, Anne Bancroft (Stati Uniti - Gran Bretagna, 1980)
 
A questo punto, è difficile negare a David Lynch il titolo di rivelazione dell' anno. In un momento dell'evoluzione del cinema dominata dai "cinefili", da giovani registi e appassionati che vanno a rivedersi la storia ed i miti per ridar loro nuova linfa, Lynch è qualcuno che viene dalla pittura. Più che Griffith o Murnau, dietro alle sue immagini si riconoscono Francis Bacon, o Edward Hopper, o Rousseau. Studente in una scuola di cinema americana, Lynch impiega ben cinque anni, e tutte le sue economie, per girare un film straordinario nel vero senso della parola: ERASERHEAD, ribattezzato ora, in seguito al grande successo del seguente THE ELEPHANT MAN, LABYRINTH MAN. ERASERHEADè un "cult movie". Un film cioè, che, fallito nella distribuzione normale, viene recuperato da quella emarginata. E diviene oggetto di culto. Nelle proiezioni di mezzanotte a Broadway, in una di quelle sale che presentano film di orrore, ERASERHEAD conosce un successo che rimarrà memorabile. E David Lynch riesce a sfondare. ERASERHEAD è un film terribile, angoscioso, anche per chi è esorcizzato dall'abitudine ad ogni sorta di emozione da schermo bianco. Un film, fatto in bianco e nero e, come detto, con pochi soldi; difficile da raccontare, come tutto il cinema di Lynch. Che è estremamente basato su una fascinazione, quasi palpabile, dell'immagine. In una periferia kafkiana, in un quadro che si potrebbe definire di miseria materiale d'epoca industriale, una famiglia, un padre con una specie di fagotto tremendo che si comprende essere una specie di aborto vivente, sprofondando nella schizofrenia, nei misteri dei nostri fantasmi che appartengono all'indicibile. E che Lynch riesce a materializzare egualmente in un universo formale di sconvolgente suggestione e coerenza.

Da ERASERHEAD a THE ELEPHANT MAN il mondo poetico di Lynch subisce un vero e proprio terremoto. Poiché passa da un'arte quasi artigianale ad un prodotto quasi industriale: dal film composto scrivendo immagine dopo immagine, in cinque anni, a quello girato con un budget soddisfacente, attori celebri, produttori e via dicendo. I due film differiscono in parte: Eraserhead rimuove l'orrore che nascondiamo in noi. Mentre THE ELEPHANT MAN utilizza solo per un istante questo orrore, ma per farci commuovere, oltre che riflettere.

Quello che importa è che le immagini di Lynch, pur attraverso questo terremoto, conservino una loro forza innegabile: segno che se il mondo della pittura ha perso uno dei suoi, il cinema ha acquistato un nuovo cineasta di grande personalità. Quello che colpisce innanzitutto in THE ELEPHANT MAN è la grande sapienza del regista nel ricreare un tono d'epoca, in questo caso la Londra dell'Ottocento, agli albori della rivoluzione industriale.

Non si tratta soltanto di usare perfette scenografie o una densità del bianco e nero che ricordi l'iconografia dei tempi. Tutto nella visione di Lynch, dalla composizione delle inquadrature alla scelta delle luci (una illuminazione che viene "dall'interno" degli ambienti), dal montaggio che governa il racconto, al tono di

recitazione degli attori (perfetti), tutto concorre a conferire al film un tono classico. E quindi diretto, semplice, apparentemente privo di filtri intellettuali, in poche parole, vero.

Cosa vuol significare il cinema di Lynch? Che si deve saper guardare al cuore delle cose, più che alla loro apparenza? Che si deve imparare a vivere con dei presunti mostri? Che i veri mostri non sono quelli indicati dalle enciclopedie o dai mass media, ma siamo tutti noi? Comunque sia, questo viaggio alla comprensione dei "mostri", Lynch ce lo fa compiere con arte sopraffina. Attraverso quello che è uno dei segreti del cinema, la possibilità di trasformare gli spettatori in voyeur. Accompagnando passo passo il medico londinese che lo scopre (lentamente, con una ben dosata lentezza...: per mezz'ora non

vediamo il viso dell'uomo elefante, per un'ora non comprendiamo che egli possieda una intelligenza normale, e solo verso la fine lo vediamo completamente nudo, ma a qual punto la nostra pietà ha completamente sostituito ogni forma di eventuale ripugnanza) l'autore di THE ELEPHANT MAN ci fa compiere una raffinata operazione di voyeurismo. Ma non certamente deteriore o fine a se stessa: perché nel frattempo, in questo universo così finemente ricostruito, fatto di verità storiche e sociali, avremo imparato a guardare. THE ELEPHANT MAN è come uno specchio: ci rinvia costantemente non solo un nostro modo di vedere, ma un nostro modo di pensare. Noi abbiamo paura, in quanto spettatori, di scoprire il viso del mostro. Ma quando finalmente lo vediamo, ci accorgiamo che è egli ad avere paura. Paura di noi, di chi lo guarda. Ed a quel punto tutto diventa relativo: è più mostruoso quel povero essere, oppure il nostro modo di osservarlo? E la ferocia di chi lo osserva, qual è la più perversa? Quella dei visitatori delle fiere, quella dei medici che lo esaminano ai congressi, o quella della buona società che viene a prendere il tè, supremo atto di sfida alle convenzioni sociali ed estetiche?

Questo gioco di specchi, di rinvii di significati quindi, termina in una sequenza bellissima, al tempo stesso di terribile denuncia realistica e di sottile ambiguità formale, che rimanda lo spettatore all'universo del fantastico. Quando l'uomo elefante, riconosciuto (finalmente, o soIo per un istante?) nella propria qualità di essere umano, è condotto a teatro: l'attrice dal palcoscenico gli dedica la rappresentazione. E la platea in abito da sera scatta in piedi, applaudendo il povero mostro, che a sua volta applaude alla rappresentazione del proprio posto in palco.

Ancora una volta la dialettica delle apparenze: la normalità da una parte, e l'eventuale mostruosità dall'altra. Divisi dal gioco mondano.


   Il film in Internet (Google)

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